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9 Agosto 2024

Alessia Pifferi condannata all'ergastolo per la morte della figlia: le motivazioni della sentenza

Alessia Pifferi fece morire sua figlia Diana per un week-end con il compagno. Ecco le motivazioni della condanna all'ergastolo

Alessia Pifferi è stata condannata all'ergastolo per aver abbandonato la sua figlioletta Diana, morta "di stenti e disidratazione" dopo essere rimasta sola in casa per cinque giorni e mezzo. La Corte d'Assise di Milano ha descritto la scelta della Pifferi di trascorrere un lungo fine settimana con il proprio compagno come mossa da un "futile ed egoistico movente", anteponendo i suoi desideri personali al "diritto/dovere di accudire la figlioletta". Nelle motivazioni della sentenza, depositate il 13 maggio, i giudici sottolineano come la donna abbia agito con una consapevolezza piena del disvalore del suo comportamento, avendo previsto i rischi per la piccola.

La gravità dell'atto è stata definita come "elevatissima" non solo dal punto di vista giuridico, ma anche umano e sociale. Il comportamento della Pifferi ha portato alla morte della bambina, trovata senza vita il 20 luglio 2022 in un lettino da campeggio, con accanto solo un biberon e una bottiglietta d'acqua vuoti, oltre a una boccetta di En, un tranquillante che la donna aveva somministrato alla bambina nelle settimane precedenti in piccole dosi.

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Le 53 pagine della sentenza, redatte dal giudice Alessandro Santangelo e dal presidente della Corte, Ilio Mannucci Pacini, ricostruiscono non solo il ritrovamento del corpo della piccola, ma anche l'esito della perizia psichiatrica, che ha confermato la piena capacità di intendere e di volere della Pifferi. La donna era perfettamente consapevole della pericolosità del suo comportamento e delle condizioni precarie in cui lasciava la figlia, come dimostrato dall'assenza di alimenti per bambini in casa.

L'aggravante dei futili motivi, aggravata dal rapporto madre-figlia, è stata confermata dalla Corte, che ha ritenuto inammissibile concedere attenuanti generiche alla Pifferi. Il suo comportamento processuale è stato giudicato negativamente per la "deresponsabilizzazione" e per aver cercato di scaricare la responsabilità morale della tragedia sul compagno, segno di una "carente rielaborazione critica" del suo gesto omicida.

 

 

Marta Rachele Pusceddu